L’ATTUALE SCENARIO CULTURALE
Povertà, precarietà, insicurezza, abbandono, sono i temi che oggi ricorrono più spesso, nel descrivere e definire la società attuale e la percezione del presente; sono anche i termini che inibiscono i cittadini, nell’immaginare un futuro e una società sicura e protettiva, minata sempre più dalla distanza tra le culture e dal senso dell’isolamento.
Trasformazioni veloci e contingenze socio-economiche sempre in continua instabilità; condizioni di lavoro con garanzie ridotte per il futuro; l’arrivo di nuovi cittadini stranieri con nuove culture; insicurezza urbana e legami sociali sempre più deboli, tendono a rappresentare potenziali elementi di stress in grado di concorrere verso lo sviluppo di comportamenti distruttivi a forte impatto soprattutto sul sistema familiare, che è sempre più spesso l’unico contenitore delle ansie e delle disfunzionalità, prodotte da quei continui e veloci mutamenti prima descritti.
Aggredita da più fronti e poco tutelata, sempre più spesso la famiglia non è in grado di assolvere al compito protettivo, educativo e promozionale delle risorse emotive delle nuove generazioni: il minore che viene allontanato dalla famiglia e inviato al sistema di accoglienza residenziale, è spesso il prodotto di tale deficit funzionale e viene dunque ridestinato ad altri agenti, in grado di provvedere a tali funzioni.
In altri casi, la funzione educativa familiare viene impedita da contingenze e situazioni estreme, ti tipo traumatico, come eventi bellici o cataclismatici, dal degrado economico o sociale, da situazioni di pericolo dovute a esodi di natura politica o razziale.
In quei casi il ricorso ad agenzie educative esterne alla famiglia come le Comunità Educative, rappresentano per i minori coinvolti, la vera occasione di mantenimento e potenziamento delle proprie capacita; l’unica possibile se non la sola SOLUZIONE DI RISCATTO. Nondimeno, attraverso il lavoro dei progetti educativi individuali, in una prospettiva più ampia, rappresentano per la società intera l’occasione di prevenzione dei fenomeni di devianza che tali circostanze possono comportare.
PARLARE OGGI DI COMUNITÀ RESIDENZIALI PER MINORI, IMPLICA RIFLETTERE SIA SU CIÒ CHE È STATO SIA SU CIÒ CHE SI DOVRÀ NECESSARIAMENTE FARE PER RESTITUIRE VALORE ALL’INTERVENTO EDUCATIVO RESIDENZIALE IN COMUNITÀ.
……Il passaggio dagli Istituti (orfanotrofi), alle comunità residenziali come le conosciamo oggi, ha prodotto
-in primo luogo-, il costituirsi di una realtà di accoglienza residenziale rispondente a bisogni immediati, percepiti come urgenti nei vari momenti storici e realizzati con uno spirito d’accoglienza per così dire di tipo naturale, condizionato inoltre dalle urgenze, dalle emergenze e dai crescenti bisogni sociali, piuttosto che da un’intenzionalità educativo/pedagogica. “Interventi tanto spontanei e naturali, vale la pena ribadire, da non lasciar spazio a una proficua attenzione alla costruzione di una metodologia pedagogica di una nuova forma d’accoglienza”. (da: «La comunità per minori. Un modello pedagogico» di Alessandra Tibollo; Edizioni Franco Angeli – Milano, 2015);
-in secondo-, l’ampliamento del numero degli affidi che per ragioni culturali, politiche e non per ultimo economiche, del nostro Paese, ha fatto sembrare l’affido in qualche modo una forma meno radicale, meno traumatica, se si vuole, di allontanamento, nell’ottica di un forte investimento nel ruolo e nel senso della famiglia.
……..In realtà il ricorso all’affido sembra affermare l’impossibilità di crescere, o per lo meno di crescere bene, se non all’interno di un contesto familiare, rendendo così le comunità una sorta di stato di “necessità” che mal si sopporta ma che corrisponde a un’opzione in base all’elenco dei collocamenti possibili: la protezione del minore deve essere realizzata, in prima istanza, tramite una famiglia affidataria o adottiva, ma qualora questa soluzione sia inattuabile solo allora si rende possibile un collocamento in struttura, identificandolo come assoluta extrema ratio. (da: «La comunità per minori. Un modello pedagogico» di Alessandra Tibollo; Edizioni Franco Angeli – Milano, 2015);
Lo stato di “necessità” per l’accoglienza in comunità, che emerge anche all’interno del dibattito pedagogico, politico e legislativo ha anche un’altra possibile linea interpretativa, ovvero che la necessità non corrisponda a una scelta fra le varie possibilità di collocamento, bensì si riferisca al momento di vita del minore: “in caso di necessità”, in quel particolare contesto, in quel particolare momento del percorso di crescita del bambino o dell’adolescente.
Questa interpretazione renderebbe la lettura degli interventi a favore dei minori di tutt’altro stampo e si ridimensionerebbe la spinta propulsiva delle attuali politiche sociali regionali all’utilizzo “strumentale” dell’affido familiare piuttosto che a quello di comunità.
E si ridimensionerebbe non in virtù del fatto che sia meglio una strada piuttosto che un’altra, ma in virtù del fatto che tale considerazione non può e non deve essere fatta aprioristicamente: la preferenza non può essere costruita su basi ideologiche, ma secondo precisi criteri valutativi di carattere squisitamente educativi e perciò “personalizzati”.
A questo va aggiunto, il crescente bisogno di accoglienza di MISNA che in questo momento storico, pongono una nuova e importante sfida educativa al mondo dell’accoglienza, portando con le loro storie di diverse appartenenze culturali, i loro bisogni e i loro desideri domande educative completamente differenti e complesse che meritano risposte pedagogiche coraggiose nel delineare bene i confini educativi entro i quali è possibile innescare un processo di trasformazione, nella creazione di una rete sociale significativa tessuta non solo all’interno della compagine italiana ma anche, e soprattutto, con adulti di riferimento della stessa appartenenza culturale del minore. (da: «La comunità per minori. Un modello pedagogico» di Alessandra Tibollo; Edizioni Franco Angeli – Milano, 2015).
Di fronte di questi rilievi, il quesito e allo stesso il nodo cruciale che ci si pone, è sulla strada migliore o possibile da intraprendere per non correre il rischio che le comunità per minori proseguano il loro cammino verso una definitiva involuzione dell’accoglienza, e in che modo possano continuare a rappresentare una POSSIBILE SOLUZIONE DI RISCATTO, capace di affrontare le nuove sfide educative, ed essere allo stesso tempo costruttori e creatori di reti sociali significative nel e del tessuto sociale e comunitario, uscendo dagli stereotipi culturali in cui le comunità di accoglienza per minori sono relegati:
il primo:
è rappresentata dall’idea della comunità per minori come servizio da “ultima spiaggia” in cui far confluire indistintamente ogni difficoltà minorile. Si noti che in questo caso la densità di problemi che le comunità si trovano ad affrontare rende impossibile l’avvio di un’adeguata progettualità pedagogica, mancando l’occasione di riflessione su quale intervento sia più adeguato per ogni singolo minore in carico ai servizi sociali ed essendo ridotta l’accoglienza residenziale tout court a una pratica istituzionale e istituzionalizzante.
il secondo:
posizione riguarda la considerazione delle comunità come uno dei possibili nodi di un’ampia rete di programmi e interventi di assistenza alle famiglie in difficoltà, riaffermando in qualche modo la necessità della loro esistenza ma in un’ottica di attivazione di percorsi di trasformazione e innovazione di tale strumento non ben definiti.
il terzo:
vi è in atto su tutto il territorio italiano un cammino di differenziazione delle strutture residenziali, in un’ottica di specializzazione delle risposte ai diversi e complessi problemi che le strutture si sono trovate ad attraversare. In questo contesto però l’indicazione della specializzazione viene declinata solo in termini di specifici problemi o bisogni a cui la comunità per minori deve rispondere. Non vi è traccia invece di una ripercussione sul metodo dell’accoglienza, che rimane legato a percorsi già consolidati nella prassi operativa di comunità. Sembra che la specializzazione si sia ridotta a una mera specializzazione di target di accoglienze, senza portare con sé una modificazione metodologica e di sistema.
Quest’ultima posizione determina almeno due rischi evidenti: una catalogazione delle “patologie”, delle problematiche dei minori accolti – come avvenne nella declinazione medica dell’intervento educativo nei primi grandi istituti d’accoglienza – e una specializzazione che riguardi solo la relazione educatore-educando, o tutt’al più l’introduzione di un nuovo asse relazionale, educatore-educando-famiglia, come alcune comunità oggi prevedono.
Proprio la delicata questione della specializzazione rappresenta la vera sfida in tema di strutture residenziali; sfida che viene a essere la prima reale occasione per riflettere pedagogicamente sui modelli di comunità, poiché è pensabile e possibile un percorso di differenziazione solo nella misura in cui non si perdano di vista alcuni tratti ed elementi distintivi dell’intervento di comunità.
È dunque proprio nella riflessione sul modello pedagogico delle comunità per minori che risiede la strada più feconda per la ricerca di una risposta esauriente alla domanda posta. Vi è la necessità di rifondare “il modello d’intervento di base” delle strutture di accoglienza per ridare coerenza al sistema formativo delle comunità e sostenere le loro differenziazioni interne (comunità residenziali, semiresidenziali, comunità familiari, comunità con utenza specifica).
Cosa significa, dunque, rifondare il modello pedagogico dell’intervento residenziale? Significa, prima di tutto, rileggere la vita di comunità come una realtà complessa e composita, come un vero dispositivo educativo, come lo definirebbe Riccardo Massa: l’insieme organizzato in modo pedagogicamente strategico di elementi come lo spazio, il tempo, il linguaggio, il corpo, il simbolo, che
compongono ogni evento educativo.
Questa particolare visione permette di riconsiderare lo strumento della comunità, nel panorama delle tipologie presenti, come ancora in grado di dimostrare la propria forza e la propria valenza educativa, superando le moltissime riflessioni riguardanti soprattutto alcuni aspetti della comunità mai o non del tutto sistematizzati: le prassi, i risvolti quotidiani, la relazione educativa e l’importanza di vari elementi relazionali, alcuni strumenti tipici, come il progetto educativo individualizzato, le cartelle, le équipe, la rete.
Si propone quindi un modello pedagogico di base che sappia ordinare, sistematizzare tutti i preziosi elementi che fanno della comunità uno strumento di straordinaria importanza, capace di restituire qualità e specificità educativa alle accoglienze nella loro concretezza, in una prospettiva sistemica.
Siffatto modello pedagogico può essere declinato attraverso tre specifiche dimensioni:
la dimensione del soggetto, fondato su principi che si riferiscono alla persona, allo sviluppo del minore, al suo accompagnamento verso un cammino di cambiamento e di crescita (personalizzazione, empowerment, responsabilizzazione);
la dimensione dell’organizzazione, con i principi che costituiscono l’ossatura, il modus operandi della struttura e di chi vi lavora, i quali “formano” lo spazio e il contesto entro cui il minore vive (collaborazione fra gli educatori, collaborazione tra i servizi, collaborazione con e tra le famiglie);
la dimensione del processo, i cui principi riguardano l’orientamento dell’azione degli educatori (intenzionalità e progettualità, forme del quotidiano, valutazione).
Sulla base di questo e di altri modelli ipotizzabili sarà possibile partire nel cammino della realizzazione di un vero e proprio dispositivo educativo, per usare le parole del stesso Massa, di un congegno metodologico teso all’arricchimento cognitivo ed emotivo dell’esperienza dei minori accolti.
Questo percorso però necessita sopra ogni altra cosa che la pedagogia abbia la forza di orientare positivamente la prassi educativa. Contingenza della storia che si manifesta come un vero e proprio kairós, il momento giusto, il tempo opportuno, un tempo di mezzo in cui qualcosa accade: in cui risvegliare un interesse attivo, un monitoraggio continuo da parte della pedagogia e dei pedagogisti del dispositivo di comunità nella sua concreta realizzazione, sia per comprenderne le potenzialità e le criticità, sia per permettere ad esso di restare culturalmente visibile e contenere i rischi della solitudine.
Tratto da: «La comunità per minori. Un modello pedagogico» di Alessandra Tibollo; Edizioni Franco Angeli – Milano, 2015